Facoltà di Analisi Critica – Il report completo

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I
due tavoli di discussione, svoltisi nelle giornate del 5 e 6 dicembre
nell’aula M della facoltà di Lettere, hanno voluto essere un primo
momento di riflessione e proposta di un progetto prolungato nel
tempo. Abbiamo voluto gettare le basi per gruppi di lavoro che
sappiano produrre un’analisi critica del sistema vigente e un
progetto di autoriforma dell’università partendo dalle specificità
del nostro ateneo e del nostro territorio.

Per
autoriforma non intendiamo un astratto progetto legislativo di
ristrutturazione dell’istituzione universitaria, ma una serie di
pratiche concrete da attuare quotidianamente nelle facoltà per
aprire spazi di riappropriazione e decisione e per smantellare il
sistema feudale di possesso e trasmissione verticale dei saperi.

La
partecipazione di studenti di diverse facoltà, sia umanistiche che
scientifiche, ha fatto emergere esigenze differenti rispetto ai vari
corsi di studio, ma una critica comune al sistema del “3+2” e del
credito.

Durante
la prima giornata abbiamo discusso di didattica. L’esigenza
generale emersa è quella di intervenire sulla didattica in tutti i
gradi dell’istruzione, ponendo primariamente l’accento su ciò
che avviene nel nostro ateneo. Il problema fondamentale, riscontrato
persino dai docenti presenti ai tavoli di discussione, è quello
relativo al “potere feudale” esercitato dai professori sugli
insegnamenti. Il docente si pone infatti come unico detentore del
sapere e trasmette quest’ultimo in maniera gerarchica, frontale,
senza lasciare la possibilità di una costruzione dialogica della
materia. Basti pensare alle bibliografie “blindate” che vengono
fornite per superare l’esame o per poter scrivere la tesi di
laurea. Inoltre raramente c’è qualche stimolo alla produzione di
sapere da parte degli studenti.

Le
proposte da noi avanzate sono rivolte ad un cambiamento coscienzioso
e capillare, osservante l’importanza “trascendentale” che la
trasmissione del sapere deve avere nell’Università. Per ovviare
alla logica feudale del corso standard, pensiamo che sia necessario
moltiplicare i seminari (tre o quattro per corso) – permettendo a
singoli studenti di decidere quale percorso intraprendere all’interno
della materia di studio – e renderli così lo strumento ufficiale
dei corsi. Per intenderci, denunciamo l’inutilità della
frequentazione di corsi con centinaia di studenti, dove ciò che
viene trasmesso risulta il più delle volte impalpabile e troppo
generico per farne oggetto di un sapere condivisibile e formativo. I
seminari, curati non solo dal professore di ruolo ma anche da
studenti, dottorandi, dottori di ricerca e ricercatori, potranno
garantire una profusione di stimoli e di agganci con le tematiche e i
problemi della quotidianità, e al tempo stesso avranno la
caratteristica di essere fruibili su piani diversi (ma comunque
sempre “orizzontali”): di confronto, di ricerca, di
aggiornamento, di informazione. Per offrire un servizio del genere,
innovativo e necessario al fine di garantire una formazione di
qualità, è indispensabile che ogni attore della trasmissione
cognitiva sia dignitosamente remunerato (senza pensare ai grandi
stipendi dei professori ordinari, i quali dovrebbero invece rendersi
conto dell’immenso divario che esiste tra i loro salari e quelli di
un ricercatore o di un professore a contratto – il quale viene
remunerato molte volte con solo 50 euro annuali).

Un
altro punto fondamentale della discussione, condizionante la riuscita
della mozione riportata sopra, è quello relativo alla libertà di
scelta nella compilazione dei piani di studio. La sua importanza si
riferisce a due problemi generali: gli ostacoli riscontrabili nel
poter accedere ad una laurea specialistica eterogenea rispetto alla
triennale conseguita (es: dalla triennale in storia alla
specialistica in filosofia, dalla triennale in lettere alla
specialistica in antropologia, ecc.), e la difficoltà nel poter
scegliere un buon numero di esami che permettano la fruzione del
corso nelle modalità descritte e auspicate nel punto precedente di
questo documento (qualora alcuni professori fossero disponibili ad
intraprendere una modalità di trasmissione dei saperi dialogica ed
orizzontale, questo risulterebbe inutile se la frequentazione dei
loro corsi fosse sbarrata da un piano di studi rigido e miope come
quelli ora vigenti). Chiediamo pertanto di rivedere completamente
l’ordinamento riguardante i piani di studio e di avere parte attiva
in tale revisione.

A
questa richiesta correliamo la possibilità di veder riconosciuta una
nostra valutazione della didattica, tramite questionari concepiti e
redatti dagli studenti (i quali sono veri e propri clienti di questo
sistema di trasmissione di sapere a pagamento). In tal ottica,
poniamo sotto forte critica il concetto di Università come ente
“professionalizzante”, dove si impara un lavoro (che
difficilmente si andrà davvero a svolgere in maniera remunerativa,
fermandoci agli stage e tirocini utili solo alle aziende), con la
conseguenza che il lavoro finisce per cambiare il sapere – quando
dovrebbe essere il sapere a cambiare il lavoro.

Sentiamo
oltremodo l’esigenza di vedere eliminati i filtri d’accesso –
come il numero chiuso, l’obbligo di frequenza e i debiti formativi
– atti a favorire determinate categorie sociali (sempre le stesse)
piuttosto che altre. Tali filtri d’accesso minano alle fondamenta i
principi sui quali deve basarsi il diritto allo studio per tutte e
tutti.

Chiediamo
inoltre l’equipollenza su base europea dei titoli di studio, unica
condizione per una reale mobilità internazionale.

Un
ultimo punto di discussione, ultimo poichè primo passo necessario
per condurre un’autoriforma del sapere (prima ancora
dell’Università), è quello riguardante l’assoluta e urgente
necessità di uno spazio fisico dove poter dare forma costruttiva
agli esiti delle nostre analisi. Un luogo, all’interno dei locali
d’Ateneo e interamente affidato agli studenti, capace di ospitare
seminari, lezioni e gruppi di studio o di intervento sulla didattica
e la ricerca. Un luogo quindi in grado di affiancare il lavoro
accademico con proposte e ausilii alla didattica, progettazioni di
seminari e convegni, assemblee interfacoltà aperte a tutti gli
studenti, nonchè a professori, ricercatori e dottorandi, i quali
potranno avere parte attiva e di responsabilità nello svolgersi
delle attività.


Durante
la seconda giornata abbiamo focalizzato sul problema del precariato e
delle varie forme di lavoro non retribuito all’interno del mondo
universitario.

Abbiamo
iniziato con un’analisa storica del problema dell’accesso alla
ricerca e alla docenza: è emerso che questo problema si protrae
dalla nascita del sistema universitario nazionale dopo l’unità
d’Italia. Da sempre l’accesso è subordinato alle decisioni del
personale docente strutturato, sia per quanto riguarda i posti da
mettere a concorso, sia per la selezione dei candidati.

La
titolarità della cattedra, che era pensata inizialmente come
strumento di autonomia da poteri esterni, si è trasformata invece in
uno strumento di potere feudale sui corsi. Per arrivare al posto di
ricercatore e poi a quello di docente bisogna sottostare a un sistema
di cooptazione nelle mani del personale docente già strutturato,
sperando di entrare nelle grazie di qualche barone potentato. Questo
sistema crea “gruppi di pensiero” attorno ai baroni, che non
consentono l’accesso e la produzione di saperi altri, critici e
innovativi rispetto a quelli proposti da queste élite di potere.

È
emersa la necessità di stabilire criteri più trasparenti per
l’indizione dei concorsi e il giudizio dei candidati, anche se
riteniamo inutile una speculazione su quale possa essere il “concorso
ideale”.

Il
precariato in università ha origini ben più antiche del processo
globale di flessibilizzazione del lavoro, ed è un precariato in
qualche modo più potente: i ricercatori precari non hanno alcun
grado di autonomia dai professori strutturati, dipendono in tutto da
loro, sia per quanto riguarda l’accesso ai fondi, sia per quanto
riguarda un’eventuale carriera da docente. L’università va avanti
basata su lavoro precario e rapporti di servaggio, sta a noi trovare
i modi per smontare questo meccanismo.

Una
delle soluzioni a tale logica di cooptazione potrebbe essere
l’abolizione delle tre classi di docenza (ricercatore, professore
associato e ordinario): si accederebbe alla carriera universitaria su
base di concorsi nazionali, partendo dal ruolo di riceratore, per poi
passare successivamente ai gradi superiori.

Per
quanto riguarda i gradi precedenti alla ricerca, crediamo sia
necessario un superamento della galassia di contratti atipici e
l’istituzione di un contratto di lavoro subordinato per i dottori di
ricerca, che quindi prevederebbe tutta una serie di diritti
attualmente non garantiti. Riprendendo anche le proposte di Roma,
crediamo che ai

dottori di ricerca vadano garantiti adeguati percorsi didattici e il
diritto all’autonomia economica: questo significa in particolare
l’immediata soppressione dei dottorati senza borsa e delle tasse di
iscrizione.

Se,
come detto, il problema del precariato all’interno dell’università è
precedente alle trasformazioni postfordiste del lavoro, l’istituzione
universitaria è oggi totalmente immersa nel mercato:
crea
disposizione al precariato, figure precarie abituate e pronte a farsi
inghiottire da un sistema basato su competizione, flessibilità,
scarse sicurezze rispetto al proprio futuro. L’università è un nodo
centrale della produzione: fornisce attraverso stage formativi e
tirocini manodopera gratuita alle aziende. A questo si limita
l’intervento dei privati nell’università italiana: ottenere
lavoratori giovani, privi di diritti, a costo zero, da sfruttare per
qualche mese. L’università è essa stessa azienda: assume personale
da impiegare nel lavoro di segreteria, nelle biblioteche, nei
laboratori con contratti atipici e scarsi diritti.

Anche
da questa seconda giornata di lavori è emersa la necessità di
mettere fortemente in discussione le finalità di mercato del
percorso formativo: riteniamo che l’università non debba “insegnare
un lavoro” o “a lavorare”, quanto fornire gli strumenti per un
accesso consapevole e critico al mondo delle professioni.
L’università attuale invece è sempre più asservita alle logiche di
Confindustria di mercificazione del sapere e mantenimento degli
attuali meccanismi di mercato. Siamo al paradosso che è il lavoro a
modificare la formazione e non il sapere a modificare il lavoro.

Il
sistema del credito ha importato all’interno dell’università la
scansione del tempo tipica del lavoro della fabbrica, sostituendo
alla retribuzione oraria in denaro quella in CFU ed è stato il
cavallo di Troia per l’ingresso massiccio del lavoro non retribuito
nei percorsi formativi: a partire dalla riforma Zecchino
l’obbligatorietà di stage e tirocini fornisce manodopera gratuita
alle aziende, alleggerendole dei costi di formazione, che una volta
erano sostenuti da esse al momento dell’assunzione e della seguente
fase di praticantato, e che ora ricadono direttamente sugli studenti.

Seppur
con differenze in base ai diversi percorsi formativi, riteniamo vada
garantito il carattere facoltativo di tali prestazioni lavorative
fornite dagli studenti; pensiamo si debba arrivare all’abolizione di
esse, o quanto meno a garantire una retribuzione equa per chi le
svolge.

Occorre
muoversi esattamente nella direzione opposta rispetto a quella
indicata da Confindustria e seguita dalle ultime riforme
universitarie: in una società in cui uno dei paradigmi è la
“formazione continua”, è necessario riflettere su forme di
salario garantite a chi studia, in modo da svincolare studenti e
lavoratori dal ricatto della precarietà.

La
seconda giornata di discussione è stata sicuramente più di analisi
che di proposta, l’autoriforma deve necessariamente passare anche per
coloro che già fanno parte del sistema, ma che vogliono smantellare
i meccanismi di cooptazione in atto: fra i docenti strutturati più
che mai “chi non è parte della soluzione è parte del problema”.

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